Lucy Thomas
Head of Sustainable Investing

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  1. Il nesso tra capitale naturale e clima è importante
  2. Fino a poco tempo fa, la questione climatica e la gestione dei rischi correlati e dei relativi impegni erano una novità per molte aziende, mentre oggi le società hanno al loro interno organi e processi di governance per gestire questi aspetti.
  3. Possiamo usare gli stessi meccanismi per il capitale naturale, che pertanto non va visto necessariamente come un argomento nuovo e travolgente.
  4. Sarebbe opportuno iniziare dove i dati già esistono, per esempio le foreste, l’uso dell'acqua.

      È straordinaria la rapidità con cui è emerso il tema del capitale naturale, che potremmo definire come il senso del valore economico delle risorse mondiali e dell'impatto finanziario della loro conservazione o del loro esaurimento. Non lo vediamo però come un nuovo "tema caldo", ma piuttosto come intrinsecamente legato a tutto ciò che riguarda l'agenda climatica.

      La domanda che gli investitori dovrebbero porsi non è tanto “come possiamo creare un nuovo programma che abbia come obiettivo la conservazione della natura e della biodiversità”, ma piuttosto “come possiamo ampliare la nostra attuale comprensione del clima per tenere conto di alcune delle sue specificità”. In particolare, come possiamo trovare il modo di quantificare i rischi per la biodiversità e, di conseguenza, assegnare loro il giusto prezzo?

      In una prospettiva d’investimento, se pensiamo alla biodiversità e al capitale naturale emergono tre aspetti in particolare.

      Primo, si tratta di un rischio enorme. Secondo le stime dell'Institute for Sustainability Leadership dell'Università di Cambridge (CISL), entro il 2050 almeno 10.000 miliardi di dollari di PIL mondiale andranno persi a causa del declino dei servizi ecosistemici.1 Le stime del Forum economico mondiale sono ancora più schiaccianti e parlano di 44.000 miliardi di dollari, affermando che oltre la metà del PIL mondiale è "moderatamente o fortemente dipendente dalla natura e dai suoi servizi".2 E secondo il fondamentale studio condotto da Partha Dasgupta, "Economics of Biodiversity", il capitale naturale è già diminuito di un sorprendente 40 percento pro capite dal 1992.3

      In secondo luogo, lo consideriamo interconnesso con tutto ciò che riguarda il percorso di decarbonizzazione. Oltre a ridurre la naturale capacità di assorbimento del carbonio del pianeta, la deforestazione rappresenta al tempo stesso un fattore di stress per gli habitat naturali, con conseguenti effetti sulla biodiversità. L'aumento globale delle ondate di calore e degli incendi dovuto ai cambiamenti climatici ha conseguenze negative sui raccolti e sulla fauna selvatica.4 L'erosione del suolo e l'impoverimento delle mangrovie hanno un analogo duplice effetto: meno carbonio catturato e perdita di biodiversità. E l'elenco continua.

      Ma c’è un terzo aspetto: dobbiamo essere consapevoli anche del fatto che gli elementi del capitale naturale sono diversi a seconda del luogo in cui ci si trova. Una tonnellata di carbonio emessa è uguale ovunque, da Miami al Mozambico. Se invece parliamo di natura e biodiversità, il luogo conta. Disboscare un ettaro di pini in Finlandia non è la stessa cosa che abbattere un ettaro di palme nella foresta pluviale amazzonica. La natura – acqua, fauna selvatica, boschi – può essere altamente specifica a seconda del luogo.

      I dati e il nesso con il clima

      La storia può essere un potente alleato per noi. Guardare al passato, anche lungo un arco temporale relativamente breve, può aiutarci ad avere un’idea di come il mondo naturale sia cambiato: la perdita di specie animali, il cambiamento dei modelli di migrazione degli uccelli, il verde che c’è, o non c’è, sulla terra. Ma anche la storia e l'esperienza degli investimenti legati al clima possono ricordarci qualcosa di utile.

      Una delle aree più interessanti è quella dei dati. Come hanno detto alcuni dei partecipanti al dibattito, abbiamo davvero moltissimi dati sul capitale naturale. Non sono né perfetti né completi, ma sono in parte contenuti nel lavoro che molti di noi stanno già svolgendo sul cambiamento climatico.

      Esistono, ad esempio, dati relativi all'uso del suolo, alla deforestazione, al consumo di acqua e allo stress idrico. È dimostrato che possiamo valutare l'erosione del capitale naturale monitorando i livelli di inquinamento o i percorsi attraverso i quali le aziende si procurano le materie prime. Esiste una tecnologia satellitare che può aiutare a tracciare la perdita di foreste. È un ottimo inizio.

      In una prospettiva di portafoglio, la sfida è quindi quella di potenziare la capacità interna. Sarà fondamentale sviluppare la capacità di gestori e analisti di comprendere i dati, valutare i segnali di rischio e, soprattutto, assegnare loro un prezzo. Ci sono alcune iniziative interessanti che possono fornire un orientamento su come valutare la governance, il rischio e la performance. La Taskforce on Nature-related Financial Disclosures (TNFD), ad esempio, suddivide la natura in quattro "regni": terra, oceano, acqua dolce e atmosfera. La TNFD, che si allineerà ai principi contabili internazionali, inizierà a marzo le consultazioni sulle tipologie di informazioni che richiederà alle aziende in ciascuna area.

      Questo crea un solido quadro di riferimento su cui lavorare, e invitiamo tutti coloro che sono interessati a contribuire. Abbiamo già visto l'impatto che alcune di queste iniziative possono avere sul clima: la Task Force on Climate-related Financial Disclosures è stata approvata in tempi brevi dal governo britannico dopo la sua pubblicazione e un numero sempre più ampio di imprese la sta adottando. Sebbene la divulgazione delle emissioni e dei rischi climatici rimanga attualmente volontaria, sembra chiaro l’orientamento verso linee guida normative più severe e l'obbligo di rendicontazione. Le informative relative alla natura seguiranno presumibilmente un percorso simile.

      Engagement o esclusione

      Ma come investitori, pur sapendo quanto sia vasto il tema del capitale naturale, dobbiamo anche cercare di renderlo tangibile, in modo da poterlo incorporare nei nostri portafogli e nei loro modelli. Ci sono diversi modi per affrontare la questione. Uno di questi consiste nell’evitare determinate aree: un investitore intenzionato a ridurre la propria impronta di biodiversità può scegliere di non investire in settori molto esposti, ad esempio le compagnie gas-petrolifere o le aziende chimiche.

      Un altro modo è quello di "accostarsi" al problema, ovvero essere disposti a investire nei settori esposti ma puntando su quelli che hanno adottato le migliori pratiche e i migliori standard. Naturalmente c'è anche l’engagement, che ci consente di collaborare con le aziende per cercare di mitigare il loro impatto. In questo ambito, ci dedichiamo alle aree in cui esistono metodologie già sviluppate – sull’acqua, l’uso del suolo e la deforestazione – che sono ben comprese dalle aziende. Ci concentriamo inoltre sulle situazioni in cui possiamo contribuire a realizzare il cambiamento. Alcuni investitori integrano i KPI relativi alla biodiversità e all'economia circolare nell'analisi delle società che detengono in portafoglio.

      In ogni caso, è fondamentale discutere delle preoccupazioni relative alla biodiversità e al capitale naturale quando parliamo di clima con le nostre società partecipate. In particolare, gli investitori devono porsi queste domande nel momento in cui si prendono decisioni importanti sulla spesa in conto capitale, per evitare conseguenze indesiderate. Alcune compagnie gas-petrolifere, per esempio, stanno aumentando l'uso dei biocarburanti, ritenendoli una valida alternativa ai combustibili fossili, ma la ricerca ha dimostrato che, se mal progettati e gestiti, i biocarburanti derivati da colture alimentari, soprattutto soia e mais, possono potenzialmente emettere una quantità di CO2 1,8 volte superiore rispetto alle fonti di carburante tradizionali. Forse crederanno di risolvere il problema, ma il pericolo è che lo stiano peggiorando.

      A prescindere da tutto ciò, e fondamentale per le argomentazioni sui rischi materiali e sui doveri fiduciari degli investitori-proprietari, la questione mi sembra chiara. Come investitori, facciamo affidamento su un sistema che funziona per fornire ai nostri clienti i rendimenti che consentono loro di andare in pensione o di coprire una passività. Se il sistema non funziona – e questo include la società, la natura e tutte le cose su cui facciamo affidamento dal punto di vista economico – non possiamo generare questi rendimenti. Se c'è qualcosa che mette a repentaglio questo sistema, bisogna affrontarlo. Quindi non si tratta solo di ciò che è rilevante per il proprio portafoglio, ma anche di come le decisioni di allocazione possono avere un impatto su quel sistema. Se non ce ne occupiamo, non saremo in grado di garantire quei ritorni finanziari in futuro. È davvero così semplice.

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