Jonathan Gregory
Head of UK Fixed Income

Tra i fossili più straordinari che si possono vedere oggi, ci sono quelli di insetti preistorici perfettamente conservati, intrappolati nell'ambra, vecchi di milioni di anni ma dall'aspetto incredibilmente vivo. Queste ignare creaturine striscianti sono state attratte dalla resina vischiosa e profumata stillata dagli alberi, che poi si è indurita e fossilizzata nel tempo fino a diventare ambra. Prendete in mano questi fossili oggi, esponeteli alla luce e vi sembrerà che uno scorpione di 23 milioni di anni stia per strisciarvi sul palmo.

Ma non preoccupatevi, sono creature del tutto innocue. Sempre che, ovviamente, non si abbia una visione alternativa e più ampia: dopotutto il presupposto di Jurassic Park, il film del 1993, era l'estrazione del DNA dei dinosauri dalle zanzare preistoriche conservate nell'ambra fossile.

Dopo trent'anni, sei film e una serie animata, direi che il danno arrecato al panorama culturale mondiale è stato piuttosto ingente. Non so esattamente di quanti film catastrofici sui dinosauri abbia bisogno il mondo, ma la saga di Jurassic Park sembra averci lasciato un eccesso cronico di offerta. La documentazione fossile ora ha molto di cui rispondere: bello, innocuo, ma potenzialmente pericoloso se guardato da una prospettiva alternativa. Non posso fare a meno di provare la stessa sensazione riguardo al percorso attuale dell'inflazione.

Minaccia inflazionistica?

L'inflazione sta sicuramente scendendo dopo il picco raggiunto a metà dello scorso anno. La Figura 1 mostra che la variazione su base annua dell'inflazione al consumo (CPI) negli Stati Uniti è scesa recentemente al 6,4%, ben al di sotto dei livelli a due cifre del 2022. Un esame più attento rivela che i prezzi dell'energia e di altre materie prime sono stati il principale fattore determinante di questo calo.

Figura 1: CPI USA su base annua

Grafico a linee e a barre combinato che mostra l'andamento anno su anno dei prezzi al consumo negli Stati Uniti, insieme alle sue parti costitutive principali come "servizi principali", "beni di base", "cibo" ed "energia".

Grafico combinato a linee e barre che mostra l'andamento su base annua dell’indice dei prezzi al consumo negli Stati Uniti (CPI) e dei suoi principali costituenti, quali "servizi di base", "beni essenziali", “alimentari" ed "energia". Il grafico mostra che il CPI è aumentato in modo significativo dalla metà del 2020 alla metà del 2022, per poi iniziare a scendere da luglio/agosto a oggi.

Questa è la buona notizia. La storia si complica man mano che si entra nei dettagli. La Figura 1 mostra altresì che l'inflazione dei servizi, che attualmente rappresenta oltre la metà dell'inflazione totale, sta ancora crescendo. Se si considera l'inflazione su base mensile (cioè l’accelerazione più recente dei prezzi), il dato complessivo è aumentato. A dicembre, il CPI su base mensile è sceso dello 0,1%, fornendo un segnale molto rialzista per le obbligazioni; in realtà quando l’inflazione complessiva stava scendendo era più facile vedere un modo per tornare all'obiettivo del 2%. Ma i dati di gennaio (Figura 2) mostrano che la tendenza discendente dei prezzi negli ultimi mesi si è invertita.

Figura 2: CPI USA su base mensile

Grafico a linee e a barre combinato che mostra l'andamento mensile dei prezzi al consumo negli Stati Uniti, insieme alle sue parti costitutive principali come "servizi principali", "beni di base", "cibo" ed "energia".

Grafico combinato a linee e barre che mostra l'andamento su base mensile dell’indice dei prezzi al consumo degli Stati Uniti (CPI) e dei suoi principali costituenti, quali "servizi di base", "beni essenziali", “alimentari" ed "energia". Il grafico più recente e granulare mostra che in realtà il CPI è aumentato negli ultimi mesi.

Potrebbero esserci diverse buone ragioni per affermare che tutto questo non ha importanza: dopotutto l'inflazione è un indicatore ritardatario e il pieno effetto dell'aumento del 4,5% dei tassi ufficiali statunitensi negli ultimi 12 mesi deve ancora essere percepito. A gennaio sono state inoltre apportate alcune modifiche tecniche al calcolo del paniere dell'inflazione negli Stati Uniti che hanno offuscato un po' il quadro. Quindi gennaio rappresenta forse solo un contrattempo e il picco dell'inflazione è definitivamente alle nostre spalle. Questo è tuttora il nostro scenario di base.

Una serie di “cosa succede se”

Ma questo potrebbe anche essere un buon momento per pensare a qualche “cosa succede se?”

Una domanda pertinente potrebbe essere “cosa succede se le battaglie facili contro l'inflazione sono state vinte e da qui in poi le cose diventano più difficili?" Oppure la domanda collegata, “cosa succede se l'inflazione è vischiosa, diciamo al 3-4%, ben al di sotto dei picchi recenti ma fastidiosamente superiore all'obiettivo della banca centrale?" Il calo dell'inflazione complessiva a livello mondiale riflette in buona parte l'inversione dello shock dei prezzi dell'energia in seguito all'invasione russa dell'Ucraina e l’allentamento, dopo la pandemia, dei problemi alle forniture che hanno colpito i prezzi di alcuni beni. Ma come abbiamo visto, negli Stati Uniti l'inflazione dei servizi e l'inflazione al netto dell'energia e dei generi alimentari non stanno scendendo molto velocemente. In tal caso quali potrebbero essere le conseguenze a lungo termine, non solo negli Stati Uniti, ma a livello globale?

Porsi domande come queste è il pane quotidiano di una buona gestione attiva dei fondi. È grazie a queste domande che riusciamo a individuare scenari alternativi plausibili rispetto allo scenario di base e a stare in guardia dal "pensiero di gruppo".

E sono domande che possono portare a discussioni interessanti.

Dall'avvento dell'inflation targeting alla fine degli anni Novanta, quasi tutte le principali banche centrali hanno scelto il 2% come l’obiettivo "giusto". Sebbene il principio dell'inflation targeting sia relativamente facile da spiegare, ossia che la stabilità dei prezzi consente alle imprese e alle famiglie di prendere decisioni migliori in materia di spesa e investimenti, l'obiettivo vero e proprio del 2%, e il motivo per cui così tante banche hanno scelto lo stesso obiettivo, sono un mistero (almeno per me). Si potrebbe persino pensare che il numero sia saltato fuori un po’ per caso.1

In economia non esiste una verità assoluta secondo la quale il 2% sia il numero "giusto" o significativamente "migliore" rispetto, ad esempio, all'1% o al 3%, e i dati quantitativi o le analisi che giustificano il 2% rispetto a un altro numero sono scarsissimi (se non inesistenti). Le banche centrali, ovviamente, indicherebbero i pericoli di un'inflazione troppo elevata (che erode i risparmi, frena gli investimenti e così via), o di un obiettivo di inflazione troppo basso (rischiando la deflazione, con le famiglie e le imprese che rimandano le spese invece di consumare oggi).2 Ma perché il 2% come numero giusto? Si tratta sicuramente di una decisione politica quanto economica.

Come un tempo si diceva che l'arte della tassazione consiste nello spennare l'oca al fine di ottenere la quantità massima di piume con il minimo starnazzo possibile, così l'arte dell'inflation targeting potrebbe essere quella di persuadere gli individui che li si protegge dai mali della deflazione senza però erodere troppo i loro risparmi e la loro capacità di spesa. Mettiamola così, il 2% di inflazione annua eroderà il valore dei vostri risparmi di circa il 25% in dieci anni. Non conosco nessuna banca centrale che giustifichi il proprio approccio di politica monetaria su questa base, preferiscono invece enfatizzare i temi dell'inflazione "bassa" e “stabile”, ma questa è la realtà dei fatti.

Alzare l'obiettivo?

Il che mi riporta al più interessante dei “cosa succede se?" di oggi. Cosa succede se l'inflazione è vischiosa al 3-4% e le banche centrali decidono che tornare al 2% è troppo difficile, o che i danni collaterali di un simile percorso sono troppo elevati? Non lo so per certo, ma un'opzione potrebbe essere quella di alzare semplicemente gli obiettivi di inflazione. Ora, questo non è il nostro caso base e sia chiaro che nessuna banca centrale potrebbe prendere questa decisione in via unilaterale: il mandato di politica monetaria e l'obiettivo di inflazione sono conferiti dai signori del governo (anche se alcune banche centrali scelgono la definizione numerica di "stabilità dei prezzi").

Ma vediamola così: tanto per cominciare, l'obiettivo del 2% è saltato fuori dal nulla, quindi non è certo sacrosanto. E l'elenco delle condizioni avverse si allunga: i costi della transizione ecologica, la guerra irrisolta in Ucraina e il probabile aumento significativo dei bilanci della difesa a livello mondiale, alcune forze della globalizzazione che hanno ingranato la retromarcia e l'impennata del debito pubblico. È facile capire come quegli stessi signori del governo possano concludere che l'aumento dell'inflazione sia la risposta, non il problema.

Quanto più tempo ci vorrà per riportare l'inflazione all’obiettivo, e quanto più i cosiddetti fattori strutturali incideranno sull'inflazione globale, tanto più è possibile che il dibattito sui meriti del 2% si sposti nell'arena pubblica. Alcuni potrebbero scartare l'idea a priori, ma i mandati delle banche centrali sono al servizio degli obiettivi politici, e questi si evolvono nel tempo. Non tutti i Paesi affronteranno il problema allo stesso modo e i governi giungeranno a conclusioni diverse. Tuttavia, data l'ubiquità dell'obiettivo del 2% e l'assenza di ragioni storiche o economiche che lo confermino come l'apoteosi evolutiva del policy making, è ragionevole chiedersi “cosa succederebbe se” l'obiettivo venisse alzato al 3-4%.

La sospensione dell’(in)credulità

Se il dibattito inizia effettivamente a prendere piede, le prime implicazioni per i mercati saranno probabilmente ben accette quanto un T-Rex infuriato che arrivi a distruggere Wall Street. I rendimenti obbligazionari nominali subirebbero una forte pressione al rialzo (i prezzi scenderebbero), poiché le aspettative di inflazione a lungo termine più elevate richiedono rendimenti più alti per preservare i rendimenti reali (al netto dell'inflazione). Le curve dei rendimenti diventerebbero più ripide. Ma i titoli protetti dall'inflazione come i TIPS probabilmente riuscirebbero a battere il mercato (uno dei motivi per cui ritengo che i TIPS siano oggi un buon elemento di diversificazione del portafoglio contro il rischio di eventi estremi).

I mercati azionari dovrebbero affrontare sfide analoghe. Le società con un potere intrinseco di determinazione dei prezzi e una protezione dall'inflazione nei ricavi andrebbero relativamente bene, ma le valutazioni azionarie basate su profitti attesi solo in un futuro lontano (come nel caso di alcuni titoli tecnologici) probabilmente si scontrerebbero con l'aumento dei rendimenti, e quindi dei tassi di sconto.

Gli asset alternativi come il real estate, che hanno flussi di reddito da locazione legati all'inflazione, potrebbero in parte attenuare le perdite derivanti da tassi di sconto più elevati. Anche altri asset alternativi, come l'oro, potrebbero registrare buone performance, data la scelta dei governi di svalutare in sostanza le valute fiat adottando obiettivi di inflazione più elevati. Ma a quel punto diversi miei colleghi considererebbero il metallo prezioso come un fossile monetario preistorico tutto particolare.

È difficile dire con esattezza dove si potrebbe arrivare, inoltre questo scenario potrebbe non verificarsi mai, ma la storia dell'inflazione merita oggi la giusta considerazione per valutare se la nostra asset allocation è adeguatamente diversificata. Come risparmiatori e investitori dobbiamo stare in guardia dalle minacce reali di svalutazione della valuta fiat, ovunque esse emergano. Ciò non è mai stato necessario quando l'inflazione era bloccata al di sotto dell’obiettivo, ma il calcolo monetario e politico sta cambiando. Affrontare un viaggio in un mondo apparentemente remoto ma pieno di insidie sarà pure un cliché cinematografico, ma è anche una buona disciplina di investimento. E dopotutto, questo è Bond Bites, non Bond Bouquets.

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