Data la sua esperienza e l'accesso a uno dei più completi database per i rendimenti delle asset class, abbiamo intervistato Paul Marsh per conoscere il suo punto di vista sulla diversificazione e sulle tendenze di correlazione degli asset.

Ogni anno, negli ultimi 25 anni, i teorici esperti della finanza Paul Marsh, Mike Staunton ed Elroy Dimson si sono liberati da altri impegni, hanno raccolto e preparato una grande quantità di dati sulle asset class e iniziato ad analizzare e scrivere. Il risultato è una pubblicazione annuale sui rendimenti di mercato, che i professionisti del settore tengono in enorme considerazione per rendere informate le loro riflessioni e le loro scelte di asset allocation. Nato dalla collaborazione con Credit Suisse, il report finale è ora noto come UBS Global Investment Returns Yearbook.

Abbiamo deciso di chiedere a Paul Marsh quali lezioni di diversificazione ha tratto da una ricerca così rigorosa e disciplinata nel corso degli anni.

Barry Gill


Può delineare una breve storia della diversificazione finanziaria?

Professor Marsh


L'intuizione secondo cui la diversificazione riduce il rischio risale a secoli fa. L'espressione "Non mettere tutte le uova in un solo paniere" viene ricondotta a una citazione di Don Chisciotte del 1605, ma potrebbe essere stata comune anche prima di allora.

La misurazione scientifica della diversificazione ha una storia più breve. Poco più di settant'anni fa, Harry Markowitz (1952) pubblicò Portfolio Selection, che pose le basi della moderna teoria del portafoglio e gli valse il Premio Nobel. Ha dimostrato che il rischio di un portafoglio non è definito dalla rischiosità media dei singoli asset, ma dalla misura in cui i rendimenti di tali asset sono correlati o si muovono insieme.

I titoli o gli asset i cui rendimenti tendono a essere negativamente correlati tra loro sono i diversificatori più validi, ma in genere rappresentano un'eccezione. Anche quelli con correlazioni nulle o basse sono buoni diversificatori. Tuttavia, fintantoché i rendimenti degli asset non sono perfettamente correlati (ossia una correlazione inferiore a uno), la diversificazione può ridurre il rischio.

Markowitz voleva dimostrare che la diversificazione riduce il rischio, consentendo agli investitori di ottenere lo stesso rendimento con un rischio inferiore o un rendimento più elevato a parità di rischio. Sosteneva che "la diversificazione è l'unico pasto gratis della finanza". Gli investitori venivano esortati a diversificare titoli, Paesi e asset class.

I vantaggi della diversificazione globale sono stati dimostrati da un accademico francese, Bruno Solnik, che 50 anni fa ha pubblicato un articolo influente dal titolo "Why not diversify internationally rather than domestically" (letteralmente: "Perché non diversificare a livello internazionale piuttosto che a livello nazionale"). All'epoca, gli investimenti transfrontalieri rappresentavano l'eccezione.

Ma non era sempre stato così. All'inizio del XX secolo gli investimenti transfrontalieri erano molto consistenti. Nel corso del XX secolo si è assistito a un modello di globalizzazione a forma di U, con investimenti internazionali come caratteristica comune sia nel '900 che nel 2000. Nel periodo tra la Prima Guerra Mondiale e il 1970, molti ostacoli e costi hanno reso più complessi gli investimenti transfrontalieri.

Dal 1970, tali ostacoli e costi sono stati progressivamente rimossi. Dopo la fine del sistema di tassi di cambio fissi di Bretton Woods nel 1971, la maggior parte delle principali valute ha fluttuato liberamente, eliminando il rischio di svalutazioni improvvise e massicce. Sebbene gli investitori debbano ancora far fronte al rischio di cambio, i rischi legati a valute, tassi di interesse e mercati azionari possono ora essere coperti a basso costo. Gli ostacoli alla circolazione internazionale dei capitali sono stati sostanzialmente smantellati. Le informazioni sono rapidamente e ampiamente disponibili e in volume sempre maggiore. I sistemi contabili, fiscali, di governance, di negoziazione e di emissione sono in fase di armonizzazione. I veicoli passivi a basse commissioni, inclusi gli ETF, abbondano, agevolando la diversificazione globale a costi contenuti..


In termini di azioni, qual è il numero ottimale di titoli da detenere per raggiungere livelli di diversificazione efficaci?

Quasi tutti i testi di finanza contengono un grafico che mette in relazione il rischio (misurato in base alla deviazione standard del portafoglio) con il numero di titoli posseduti, mostrando come la diversificazione tra i singoli titoli riduca rapidamente il rischio. L'opinione comune è che un numero ridotto di titoli, ad esempio da 10 a 20, è sufficiente per ottenere un rendimento simile a quello del mercato. Nello Yearbook 2022, abbiamo dimostrato che, sebbene questi grafici siano corretti, sono fuorvianti. Questo perché si concentrano sulla deviazione standard del portafoglio, anziché sul suo rischio residuo o sul tracking error. Per creare un portafoglio ben diversificato che segua o imiti il mercato sono necessari molti più titoli. Per il mercato statunitense, anche con 100 titoli, abbiamo dimostrato che il tracking error è ancora del 3,3% annuo.

Ciò non toglie che la diversificazione tra i titoli sia un modo molto efficace per ridurre il rischio. Nella maggior parte dei Paesi, il rischio di un portafoglio azionario ben diversificato, ad esempio di un fondo indicizzato per quel Paese, è circa la metà di quello di una tipica azione individuale.


Cosa ne pensa della ricerca di Henrik Bessembinder, secondo cui solo una piccola minoranza di titoli guida i rendimenti del mercato nel tempo e la maggior parte di essi ha una performance peggiore della liquidità? Che cosa ci dice eventualmente questo sull'investimento attivo rispetto a quello passivo?

La ricerca di Bessembinder è interessante e convincente. In un primo documento pubblicato nel 2018, l'autore mostra che gran parte delle azioni statunitensi (57,4%) ha avuto nel corso della vita rendimenti buy-and-hold inferiori a quelli dei Treasury. Dal 1926, il guadagno netto dell'intero mercato azionario statunitense è riconducibile al 4% delle società con le migliori performance. In un articolo successivo, pubblicato nel 2021, ha esaminato circa 64.000 titoli di 42 Paesi e identificato lo stesso schema anche per i titoli non statunitensi.

Ciò è dovuto alla forte asimmetria positiva dei rendimenti dei singoli titoli. La cosa bella di investire in un titolo è che non si può perdere più del 100%. Tuttavia, è possibile ottenere rendimenti ben superiori al 100%, addirittura del 1000% o più. In ragione di questa asimmetria positiva dei rendimenti, il rendimento medio di un portafoglio di azioni è ben superiore al rendimento mediano. Il premio positivo rispetto ai titoli di Stato che osserviamo per i mercati azionari nel loro complesso è determinato dai rendimenti molto elevati conseguiti da un numero piuttosto ristretto di titoli.

È ampiamente dimostrato che gli investitori singoli/privati detengono in genere portafogli concentrati, con relativamente pochi titoli. I risultati di Bessembinder implicano che il soggetto medio con un portafoglio concentrato otterrà probabilmente un rendimento inferiore a quello del mercato generale.

Che cosa ci dice questo sull'investimento attivo rispetto a quello passivo? Entrambi gli schieramenti sostengono che ciò avvalora la loro tesi. I gestori attivi pensano che le loro competenze siano essenziali per trovare i pochi titoli che fanno davvero la differenza. I gestori passivi ritengono che sia necessario un portafoglio altamente diversificato che segua il mercato per cogliere il premio di rischio dello stesso. Entrambi gli approcci sono corretti, ma per la scelta occorre capire se i gestori attivi abbiano le competenze richieste per trovare i titoli giusti e possano sovraperformare al netto delle commissioni.


La diversificazione globale è sempre una buona idea?

Solnik ha dimostrato che è possibile ridurre il rischio diversificando tra i vari Paesi. Ha esortato gli investitori di tutto il mondo, in particolare quelli statunitensi, a diversificare a livello globale. Tuttavia, anche se a priori la diversificazione globale sembra sempre una buona idea, non è detto che abbia un risultato positivo.

Nello Yearbook 2022 abbiamo confrontato gli investimenti nazionali rispetto a quelli globali per gli investitori in 32 Paesi a partire dal 1974 (data del documento di Solnik). Per ogni Paese, abbiamo esaminato l'aumento dell'indice di Sharpe (rapporto rischio/rendimento) in seguito all'investimento nell'indice mondiale, rispetto all'investimento nel mercato interno dell'investitore.

Gli investimenti globali hanno portato a indici di Sharpe più elevati rispetto agli omologhi nazionali nella stragrande maggioranza dei Paesi. Tuttavia, sono emerse alcune eccezioni e una di queste riguardava il mercato più grande e importante del mondo, gli Stati Uniti. Per gli investitori statunitensi sarebbe stato meglio continuare a giocare in casa. Con il senno di poi, seguire il consiglio di Solnik si sarebbe rivelato un grave errore.

Per un investitore statunitense, gli investimenti interni sono migliori di quelli globali per due motivi. In primo luogo, i titoli azionari statunitensi hanno registrato una performance eccezionale. In questo periodo, i titoli statunitensi hanno sopravanzato quelli non statunitensi di circa il 2% all'anno. Insieme ai miei co-autori, ho documentato questa continua sovraperformance delle azioni statunitensi, descrivendola come un caso di "eccezionalismo americano".

In secondo luogo, la diversificazione globale non è riuscita a ridurre la volatilità per gli investitori statunitensi. Il mercato azionario statunitense è stato tra i meno volatili del mondo, in quanto le sue dimensioni, la sua portata e la sua ampiezza hanno offerto un elevato livello di diversificazione. In questo periodo, la volatilità media dei Paesi non statunitensi nell'indice globale è stata quasi doppia rispetto a quella del mercato statunitense. Gli investitori statunitensi hanno avuto meno da guadagnare dalla riduzione del rischio rispetto alle loro controparti estere.

Questo è un monito importante. Ci ricorda che gli investimenti sono soggetti a una notevole incertezza. Delle decisioni di investimento oculate, basate su criteri ragionevoli, possono talvolta avere risultati deludenti.

In prospettiva, e senza il senno di poi, gli argomenti a favore della diversificazione mondiale restano convincenti. Il nostro consiglio agli investitori di tutti i Paesi, compresi gli Stati Uniti, è quello di diversificare a livello globale. Riteniamo che un tale approccio consenta molto probabilmente di ridurre il rischio e aumentare l'indice di Sharpe, ma occorre riconoscere che ciò non è garantito.


Come sono cambiate nel tempo le correlazioni e di conseguenza i vantaggi della diversificazione globale?

Nello Yearbook 2022, abbiamo esaminato come è cambiata la correlazione media tra i rendimenti di tutte le coppie di Paesi nel periodo dal 1970. È emerso che la correlazione media tra i mercati sviluppati è più che raddoppiata, passando dallo 0,37 dei primi anni '70 allo 0,75 dell'ultimo periodo esaminato. L'aumento corrispondente per i mercati emergenti è passato da una base molto bassa di 0,05 a 0,49.

Questi aumenti hanno coinciso con la rimozione delle barriere e con una maggiore globalizzazione delle economie e dei mercati, fattori che hanno fatto da traino. Ironia della sorte, il fatto che le correlazioni abbiano raggiunto livelli mai visti in passato ha ridotto i potenziali guadagni derivanti dalla diversificazione.

Nonostante ciò, alcune fonti citano ancora guadagni potenziali piuttosto elevati, basati forse su dati obsoleti o ipotesi non realistiche. Le nostre stime suggeriscono che gli investitori di tutto il mondo possono ora aspettarsi un livello di riduzione del rischio più modesto, ma comunque utile, dalla diversificazione globale.


Si parla molto del portafoglio azionario/obbligazionario 60/40. Quali lezioni possiamo trarre dai suoi dati e da decenni di ricerca sui prezzi degli asset in termini di diversificazione tra azioni e obbligazioni?

Il portafoglio 60/40 non ha nulla di magico. Il mix appropriato varia da un investitore all'altro, a seconda degli obiettivi di investimento e delle preferenze di rischio. Tuttavia, la detenzione di azioni e obbligazioni consente di ridurre sensibilmente il rischio. Nello Yearbook dimostriamo che il rischio di ribasso di un portafoglio misto azioni/obbligazioni è di molto inferiore a quello di un portafoglio interamente azionario o addirittura interamente obbligazionario.

Ci sono due ragioni. In primo luogo, le obbligazioni sono meno volatili delle azioni. In secondo, le obbligazioni sono imperfettamente correlate alle azioni. Ad esempio, nell'intero XX secolo la correlazione tra azioni e obbligazioni statunitensi è stata di appena 0,19. Questa correlazione positiva, ma bassa, ha fornito un buon margine di diversificazione tra azioni e obbligazioni.

Le correlazioni negative sono anche meglio. Nel periodo 2000–21, la correlazione tra azioni e obbligazioni statunitensi è risultata pari a -0,29, un valore decisamente insolito per gli standard storici. Gli Stati Uniti non sono stati i soli: in questo periodo le correlazioni tra azioni e obbligazioni sono state negative nella maggior parte dei principali mercati mondiali. Questa correlazione negativa ha fatto sì che le azioni e le obbligazioni fungessero da copertura reciproca, consentendo agli investitori di aumentare le allocazioni azionarie pur rispettando il budget di rischio del portafoglio.

Ma tutte le cose belle finiscono. All'inizio del 2022, eravamo entrati in un contesto diverso. L'inflazione era aumentata. La politica monetaria era passata da ultra-accomodante a un ciclo di rialzo dei tassi di interesse. I tassi di interesse reali erano quindi in forte ascesa, anziché in calo. Come abbiamo detto all'epoca nello Yearbook, "non raccomandiamo quindi di confidare in un proseguimento delle correlazioni negative tra azioni e obbligazioni". Nel 2022, infatti, azioni e obbligazioni sono crollate insieme, determinando un drawdown di oltre il 30% per un portafoglio azionario/obbligazionario 60/40.

Questo è stato un tempestivo promemoria del fatto che la diversificazione dovrebbe essere considerata una strategia di lungo periodo. Nel breve termine, soprattutto durante i periodi di crisi, può deludere gli investitori. Tuttavia, sebbene le correlazioni negative tra azioni e obbligazioni possano essere una caratteristica del passato, in prospettiva ci aspettiamo, sulla base dei dati storici, che la correlazione tra azioni e obbligazioni resti contenuta. In tal caso, continua chiaramente ad avere senso per gli investitori diversificare tra azioni e obbligazioni.


Ha appena detto che le diversificazioni mostrano i propri limiti quando gli investitori ne hanno più bisogno, ossia in periodi di crisi. Cosa possiamo imparare dal passato?

Numerosi ricercatori hanno dimostrato che le correlazioni tra i titoli e tra i Paesi tendono ad aumentare in modo piuttosto marcato durante i periodi di crisi. Tutti gli strumenti diminuiscono contemporaneamente, rendendo così la diversificazione meno efficace. Gli esempi più recenti sono la crisi finanziaria globale, il COVID-19 e il mercato ribassista nel 2022.

Il costo delle correlazioni elevate dipende dalla loro durata. È appurato che le correlazioni più elevate derivanti dalle crisi hanno una durata piuttosto ridotta. La misura in cui la diversificazione domestica e internazionale può deludere gli investitori in una crisi è quindi limitata a intervalli piuttosto brevi, e diventa rilevante solo se coincide con momenti in cui l'investitore è di fatto costretto a vendere. Per gli investitori a lungo termine, l'aumento delle correlazioni è meno importante.


Coprire o non coprire? Ha un'opinione sulla copertura valutaria?

La copertura del rischio di cambio appare interessante in quanto riduce un elemento del rischio associato agli investimenti transfrontalieri. Tuttavia, non è così semplice e anche l'orizzonte temporale dell'investitore conta. Nel breve periodo, i tassi di cambio possono variare notevolmente e le variazioni hanno un impatto significativo. Sebbene la copertura del rischio di cambio riduca la volatilità a breve termine, la nostra ricerca per la stesura dello Yearbook ha rilevato che i suoi benefici sono diminuiti in periodi più recenti. Per gli investimenti azionari, la riduzione del rischio derivante dalla copertura dei titoli azionari è meno della metà di quella ottenibile con la diversificazione globale.

Per gli investitori a lungo termine, la copertura è meno necessaria e può persino essere controproducente. La nostra ricerca mostra che, sebbene le valute siano state volatili, nel lungo periodo le variazioni del valore di parità erano in larga misura dettate dai tassi di inflazione relativi. Ciò significa che gli investitori a lungo termine sono già in parte protetti dal rischio valutario.

In teoria, la copertura comporta l'apertura di una posizione short sui tassi di interesse esteri e una posizione long sul tasso di interesse nazionale dell'investitore. Pur contribuendo a coprire il rischio valutario a breve termine, ciò introduce una nuova forma di rischio e fonte di volatilità, ossia l'assunzione di una posizione sui tassi di interesse reali a livello nazionale rispetto all'estero. La nostra ricerca ha rilevato che, su orizzonti più lunghi, la copertura può mediamente portare a un aumento della volatilità complessiva dei rendimenti reali e rivelarsi quindi controproducente.


C'è qualcosa di interessante che ha capito sulla diversificazione e di cui non abbiamo parlato?

Ci sono solo due aspetti che vorrei menzionare. In primo luogo, la crescente concentrazione del mercato azionario. L'eccezionale performance storica dei titoli americani ha portato gli Stati Uniti a dominare i mercati mondiali, con le azioni del Paese che rappresentano oggi oltre il 60% della capitalizzazione mondiale liberamente negoziabile. Allo stesso tempo, molti mercati azionari in tutto il mondo sono diventati a loro volta più concentrati. I tre maggiori titoli statunitensi rappresentano attualmente il 16% del valore del mercato, mentre i primi dieci rappresentano il 29%. Si tratta del più alto livello di concentrazione dal 1966. Questa maggiore concentrazione pone nuove sfide agli investitori che cercano di diversificare a livello nazionale e globale.

In secondo luogo, la diversificazione non deve essere vista come un obiettivo a sé stante, da perseguire a tutti i costi. L'obiettivo finale è una buona performance corretta per il rischio e, in quest'ottica, è possibile che si diversifichi in misura eccessiva.

La sovra-diversificazione si verifica quando un investitore o un gestore di fondi dispone di informazioni o dati che non vengono sfruttati appieno perché il portafoglio è troppo diversificato. Non si può battere il mercato semplicemente detenendolo. Per battere il mercato, è necessario essere in grado di generare alfa, talvolta noto come rendimento in eccesso, rendimento anomalo o rendimento superiore al benchmark. Supponendo di possedere tale abilità, è necessario assumere posizioni sufficientemente ampie per sfruttarla. Altrimenti, la diversificazione rischia solo di tramutarsi in peggiori performance.

The Red Thread: Diversification Edition

L'arte delle correlazioni

S-11/24 NAMT-1891

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Esterno a UBS

Portfolio of Gaia Vince

Professor Paul Marsh

All'interno della London Business School è stato titolare delle Cattedra di finanziaria, vicerettore, rettore e sovrintendente sia d'ufficio che eletto. Ha fornito consulenza in diverse inchieste pubbliche e in precedenza è stato presidente di Aberforth Smaller Companies Trust, e amministratore non esecutivo di M&G Group e Majedie Investments. Ha svolto il ruolo di consulente in un vasto numero di istituzioni e società finanziarie. Il dott. Marsh ha pubblicato articoli su Journal of Business, Journal of Finance, Journal of Financial Economics, Journal of Portfolio Management, Harvard Business Review e molte altre riviste. Con Elroy Dimson, ha co-progettato l’indice FTSE 100-Share e gli indici Deutsche Numis per il mercato azionario britannico. Insieme a Elroy Dimson e Mike Staunton, ha scritto l’importante libro in materia di investimenti, “Triumph of the Optimists (Il trionfo degli ottimisti)”. Inoltre, dal 2000 scrivono ogni anno il Global Investment Returns Yearbook, ora pubblicato da UBS.

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